Gli antichi romani e la morte. Dissacratori fino alla “fine”

Gli antichi romani e la morte. Dissacratori fino alla “fine”

Come gli antichi romani riuscivano ad esorcizzare anche le paure più recondite con un po’ di sana ironia

Gli antichi romani e la morte

Gli antichi romani e la morte. Quando si pensa al romano cittadino di Roma, ci si immagina subito un tipo amicone, sarcastico, a tratti anche insolente e fumantino. In effetti l’umorismo è stata una componente della romanità già dai tempi antichi. E solo loro potevano prendersi gioco del tabù per eccellenza: il trapasso. A proposito dell’“ultimo viaggio”, nello scorso articolo si era parlato dell’eccellenza dei romani nella costruzione di infrastrutture e, in particolare si era ricordata la prima autostrada mai costruita: la via Appia (312 a. C.). Ebbene, questa e altre vie consolari, divennero note per la presenza di sepolcri più o meno monumentali. Per i romani non esisteva il concetto di cimitero come luogo separato, ma anzi era forte la volontà di mantenere un legame tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Perciò si sceglievano appositamente le vie più trafficate (con l’unico vincolo di mantenersi al di fuori del pomerium, ossia delle mura cittadine).

La strada dove tutto iniziò

L’Appia antica, come strada principale, fu la prescelta ed in breve occupata da molteplici tombe; tra le prime quelle degli Scipioni. E chi non riusciva ad alloggiare in “prima fila” doveva accontentarsi delle seconde, terze etc. etc. All’ inizio della Via Appia Scipione Barbato venne ad esempio ricordato nell’ iscrizione del suo sarcofago “Uomo forte e sapiente, il cui aspetto fu in tutto pari al valore. Console, censore, edile… assoggettò tutta la Lucania e ne portò via ostaggi”. Ma oltre alle lodi, c’era anche spazio per commemorazioni meno solenni e più terrene, che ben riflettevano un pragmatismo spesso cinico. Molti romani, lungi da un buonismo con cui avrebbero potuto impietosire o farsi benvolere, si rivolgevano direttamente al viandante ricordandogli, ad esempio, di non ritenersi di fronte a loro troppo fortunato perché il sepolto li aveva solo preceduti. “Viandante viandante, quel che tu sei io fui. Quel che io sono domani sarai”.

Gli antichi romani e la morte

Gli antichi romani e la morte: tombe da non maltrattare

Molti sono gli avvertimenti a non maltrattare le tombe; dice Aurelio Ceta sulla sua:” Chiunque solleverà questa pietra o la farà rimuovere, muoia fino all’ultimo dei suoi”! Oppure:” Chiunque danneggi la mia tomba o rubi i suoi ornamenti che possa veder egli la morte e tutti i suoi familiari” e ancora “Chiunque rubi i chiodi da questa struttura che possa conficcarteli nei tuoi occhi “ Un altro che forse aveva avuto problemi legali tuona: “Gli avvocati e il malocchio si tengano lontani dalla mia tomba”. Tra gli epitaffi più comuni figura un classico “Hodie mihi, cras tibi” (oggi a me domani a te) o anche la constatazione “Sono qui contro la mia volontà”.

Gli antichi romani e la morte: la dolcezza anche in questo momento

C’era pure spazio per un po’ di dolcezza nel ricordo di un cane che aveva servito fedelmente il suo padrone: “A guardia dei carri non latrò mai inutilmente, ora tace e l’ombra vigila sulle sue ceneri”. Un attore di Ostia vuole mantenere viva la sua memoria così: “Qui riposa Leburna, maestro di recitazione, che visse più o meno cent’anni. Sono morto tante volte ma così (bene) mai! A voi lassù auguro buona salute”. Mentre delle matrone si sottolineava brevemente l’onestà di mogli e madri, simbolo di virtù ed onestà femminile: “Abile nel parlare, onesta nel portamento, custodì la casa”.

Un tale Aulo, invece, non ha remore nel piangere, in un lungo epitaffio, tutto il bene che gli fece la sua schiava Allia Potestas; la piange senza tregua perché “nessuna donna dopo di te sembrò più degna”, ne ricorda con strazio le abilità di amante, concubina, e scrive del suo ménage à trois instaurato tra lui, lei ed un altro uomo: “dopo la sua morte quegli stessi amici invecchiano ormai lontani”.

Gli antichi romani e la morte

Le tombe non sono latrine

A parte amori andati e virtù varie da rammentare in eterno, moltissimi invece si preoccupavano che le loro sepolture non venissero sporcate dai passanti che, al bisogno, le usavano come latrine. Vista la grande quantità di avvertimenti in tal senso, sappiamo che il problema era perciò molto sentito “Né in momentum meum populus cacatum currat” (in latino sembra più soft ma era un secco divieto a farla sulla sua tomba). Un altro chiede gentilmente di non sporcare ma se proprio scappa, almeno di mingere solamente, altrimenti accovanciandosi sarà implacabilmente punto da ortiche.

E per concludere questa breve rassegna di solamente alcuni tra gli esempi più divertenti, una ultima iscrizione dove si fanno addirittura dei conti tra un oste e il defunto: “Copo, computemus- Habes vini sextiarium unum; panem assem unum; pulmentarium asses duos. Convenit. Puellam asses octo. Et hoc convenit Faenum mulo: asses duos: Ise mulus me ad factum dabit!” (Oste facciamo i conti, il vino un sesterzio, il pane un asse, companatico due assi. Giusto. Per la ragazza sono otto assi. Anche questo è giusto. Il fieno per il mulo due assi. –il cliente: – Questo mulo mi manderà in rovina!). Dando tutta la colpa del conto salato al povero mulo.

Sicuramente dietro queste scelte c’era la voglia di esorcizzare sul tema della morte ma il modo in cui i romani lo fanno è la riprova della loro unicità.

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